Negli ultimi anni, la Clean Beauty è diventata una tendenza globale, passando dall’essere un settore di nicchia a diventare una delle tendenze più in voga a livello mondiale. I nuovi eco-consumatori sono diventati sempre più consapevoli dell’importanza degli ingredienti presenti nei prodotti che utilizzano quotidianamente e del loro impatto sull’ambiente. In questo contesto, è emerso un interesse crescente per i cosmetici “reef-safe”, cioè che non creano danni alle barriere coralline e agli ecosistemi marini. Mentre affermazioni come “senza parabeni” o “senza profumo” sembrano essere in discesa, claim come “plastic-free” o “reef-safe” sono in ascesa.
L’attenzione all’ecosistema sta dunque diventando sempre più una priorità per una vasta gamma di consumatori, istituzioni internazionali e anche la comunità scientifica, che riconoscono l’importanza di preservare e proteggere il nostro prezioso ambiente marino.
Lo sbiancamento dei coralli (coral bleaching)
Uno dei fenomeni più preoccupanti è lo sbiancamento dei coralli, noto come coral bleaching. Questo processo avviene quando i coralli sotto stress espellono le alghe simbiotiche (zooxantelle) che forniscono loro nutrimento attraverso la fotosintesi. Le cause dello stress possono essere varie, tra cui variazioni della temperatura dell’acqua, aumento dell’acidità degli oceani, intensificazione delle radiazioni solari e presenza di inquinanti come erbicidi e perdite di petrolio. Se lo stress persiste, il corallo non riesce più a nutrirsi e quindi può morire. Lo sbiancamento dei coralli non solo minaccia direttamente la sopravvivenza di questi organismi marini, ma ha anche impatti devastanti sull’ecosistema circostante. La perdita di coralli riduce infatti la biodiversità, influisce sull’habitat di numerosi pesci e crostacei che dipendono dalle barriere coralline e può aumentare il rischio di danni alle coste da parte delle onde e delle tempeste.
Filtri solari “fisici” e “chimici”: quali sono i più impattanti sull’ambiente marino?
Col termine di filtri “fisici” o “minerali” ci riferiamo in genere ai filtri UV inorganici che agiscono riflettendo la radiazione UV, mentre con quello di filtri “chimici” a quei composti organici sintetici che agiscono assorbendo le radiazioni UV e disperdendole sotto forma di calore. In termini di sicurezza per la salute umana, per esempio prendendo come riferimento il Regolamento UE sui Cosmetici, tutti i filtri UV, siano essi fisici o chimici, sono soggetti a rigorose valutazioni di sicurezza e solo quelli approvati come sicuri ed elencati nell’allegato VI del Regolamento possono essere inclusi nei prodotti cosmetici.
Tuttavia, i filtri chimici sono stati oggetto di crescente attenzione a causa del loro potenziale impatto ambientale. Studi recenti hanno individuato la presenza di alcuni di questi filtri nelle acque marine, citandoli come possibili cause dello sbiancamento dei coralli, con l’ossibenzone come principale responsabile. In risposta a queste preoccupazioni, alcuni governi, come quello delle Hawaii, hanno vietato l’uso di determinati filtri UV sintetici e stanno proponendo divieti aggiuntivi per altre sostanze. Queste azioni stanno influenzando anche altre giurisdizioni a seguire la stessa direzione.
Una possibile alternativa per i formulatori è rappresentata dai filtri UV minerali, come biossido di titanio e ossido di zinco. Sebbene possano sembrare più rispettosi dell’ambiente a causa della loro origine naturale, anch’essi possono causare lo sbiancamento dei coralli in alcune condizioni, come evidenziato da studi specifici.
Tuttavia, la disponibilità limitata di studi e le complesse dinamiche dell’ambiente marino rendono difficile stabilire una relazione definitiva tra l’esposizione ai filtri solari e lo sbiancamento dei coralli. Le concentrazioni di filtri UV nel reale ambiente marino sono spesso inferiori alle stime, ma possono ovviamente aumentare in luoghi affollati come le spiagge. La questione della protezione solare e del suo impatto ambientale è davvero complessa e richiede ulteriori ricerche per comprendere appieno le dinamiche in gioco e sviluppare soluzioni che garantiscano la protezione sia della pelle, sia dell’ecosistema marino.
Esiste il filtro UV “perfetto”?
A questo punto sorgono alcune domande: Esiste una soluzione che soddisfi la necessità di proteggere la pelle dai danni solari senza compromettere l’ecosistema? Ed è possibile sostenere l’affermazione “reef-safe” per un solare? A causa della limitata ricerca disponibile, ancora non esiste un consenso scientifico sulla definizione di un filtro solare “reef-safe”. Nonostante ciò, sono stati già sviluppati strumenti per valutare l’impatto ambientale dei filtri solari, prendendo in considerazione parametri come la biodegradabilità e la tossicità acquatica. Questi strumenti possono essere utili per valutare le formulazioni esistenti e future al fine di ridurre al minimo l’impatto negativo sull’ambiente.
Linee guida per i produttori, i consumatori e le istituzioni locali
L’International Coral Reef Initiative (ICRI) ha delineato una serie di raccomandazioni per guidare le aziende nel rispetto dell’ambiente marino:
- Incentivare la produzione di solari rispettosi della barriera corallina: è importante che gli studi sull’impatto delle creme solari continuino per supportare eventuali modifiche normative, e che le aziende siano incoraggiate a investire in tecnologie alternative.
- Promuovere l’uso di metodi di protezione solare rispettosi del mare: È fondamentale sensibilizzare gli utenti sull’impatto ambientale dei solari, invitandoli a utilizzare protezioni alternative come l’ombra e indumenti protettivi.
- Regolamentare la vendita e l’uso di solari con ingredienti dannosi per l’ambiente: Alcune aree marine applicano regolamenti che vietano creme solari con ingredienti dannosi, promuovendo l’uso di solari con filtri minerali.
- Esercitare pressioni “dal basso” per solari più ecologici: L’ICRI suggerisce di sensibilizzare l’opinione pubblica per spingere i produttori a formulare solari a ridotto impatto ambientale.
- Introdurre disincentivi finanziari: Tassare maggiormente le creme solari con sostanze dannose per l’ambiente marino potrebbe incentivare i consumatori a preferire prodotti a basso impatto ambientale, anche se l’efficacia di tale approccio non sembra sempre garantita.
Come dovrebbero comportarsi e adattarsi le aziende cosmetiche?
Per le aziende che desiderano formulare prodotti sicuri per l’ecosistema marino e soddisfare le aspettative di naturalità e sostenibilità dei consumatori, si rende importante bilanciare i benefici dei filtri solari nella protezione della pelle con il rischio di danneggiare l’ambiente marino.
È importante sottolineare che le sostanze, indipendentemente dalla loro origine, possono causare impatti negativi sugli ecosistemi. Pertanto, la valutazione del rischio dovrebbe essere affrontata a livello scientifico, cioè basata sulla tossicità e sui livelli di esposizione, e la conseguente gestione dei rischi dovrebbe essere proporzionata. Per ridurre davvero i danni all’ecosistema, è essenziale che claim come “reef-safe” siano supportati da prove solide. Le formule dovrebbero essere testate in condizioni simili a quelle dell’ambiente marino reale, valutando anche gli effetti a lungo termine dell’esposizione alle sostanze presenti nei prodotti.
Il supporto di NATRUE
Per formulare cosmetici realmente naturali e sostenibili, una guida autorevole è rappresentata dagli standard della cosmesi naturale e biologica certificata, come il marchio NATRUE. I suoi requisiti rigidi garantiscono che i cosmetici che portano il marchio siano autenticamente naturali e biologici, limitando fortemente la presenza di sostanze sintetiche e imponendo l’uso di filtri UV minerali come biossido di titanio e ossido di zinco.
La certificazione NATRUE assicura che i prodotti siano stati controllati e convalidati da organismi terzi rispetto ai criteri dello standard, combattendo così il greenwashing e supportando le aziende impegnate in azioni di sostenibilità e compatibilità ambientale.
Per garantire che i solari rispettino il mare e soddisfino le crescenti aspettative dei consumatori in termini di naturalità e sostenibilità, le aziende possono fare affidamento su uno standard rigoroso come NATRUE e sul suo schema internazionale attivo dal 2008 e ben consolidato nei principali mercati globali. Per ulteriori informazioni sui criteri, sui prodotti e sulle materie prime certificati da NATRUE, è possibile visitare il sito www.natrue.org/it.
Article written by Diana Malcangi, NATRUE Scientific and Regulatory Consultant. It was originally published in Italian on Mabella (available here)